Carlo Dalla Costa: “I bambini il mio termometro”

Attore, formatore teatrale e ora anche direttore artistico, Carlo Dalla Costa è una delle voci del teatro umbro. Nato artisticamente nel cuore del Calendimaggio di Assisi, ha fatto della scena un luogo di ricerca personale e collettiva. Ci racconta il significato profondo dell’essere attore, l’importanza della Commedia dell’Arte e la nascita del nuovo festival “All’ombra delle sculture” a Brufa.

Quest’anno sei stato protagonista delle Scene del Calendimaggio di Assisi per la Magnifica Parte de Sotto, tra l’altro spettacolo risultato vincitore per la giuria. Com’è stata questa esperienza?

Intensa e catartica, a tratti travolgente. Il mio personaggio, Martino, era un uomo medievale che, dopo la morte della moglie durante il parto, cade in una spirale di dolore fino quasi a disconoscere il figlio. Da lì parte un viaggio interiore fatto di dolore e smarrimento, ma proprio nel gesto estremo di abbandonare il figlio appena nato, ritrova il senso dell’amore attraverso il ricordo. È stata una parte che mi ha toccato profondamente per la complessità emotiva: mi ha permesso di esplorare tematiche intime come la paternità e la perdita. Molte persone che partecipavano alle scene mi hanno detto di averle commosse, e di certo è stata forte come risposta. Il mio insegnante diceva sempre: “Se dovete far emozionare più che commuovere, non piangete voi. Perché altrimenti, state rubando l’emozione a chi vi sta guardando. A meno che non sia un pianto che fa parte della scena e a quel punto dovete metterci la tecnica”. E nel ruolo di Martino, per le scene di Parte de Sotto, emotività e tecnica non sono mai andate così tanto in sintonia e simbiosi.

 

Parlaci un po’ di te. Hai iniziato proprio con il Calendimaggio?

Sì, avevo appena 13 o 14 anni. Mi sono avvicinato alla Parte de Sotto quasi per caso, ma da lì è stato un crescendo. Ho partecipato al coro per oltre dieci anni, poi ho iniziato a recitare e da lì non ho più smesso. È stato l’inizio del mio amore per il teatro, un amore che poi ho coltivato con gli studi, a partire dal CUT di Perugia fino all’Accademia a Udine  per tre anni e a varie masterclass a Milano e Venezia, specialmente sulla Commedia dell’Arte. Oggi collaboro con Il Teatro Stabile dell’Umbria in vari progetti tra cui attività teatrali per ragazzi, il progetto di formazione “Per Aspera Ad Astra” realizzato con i detenuti della Casa Circondariale di Capanne a Perugia e le audiodescrizioni “Teatro no limits” per non vedenti e ipovedenti. Il Calendimaggio è stato quindi il mio primo vero palcoscenico, il luogo dove ho sperimentato per la prima volta cosa significasse “interpretare” un personaggio, vivere un’altra vita per il tempo della scena. E soprattutto, è stato il luogo in cui ho capito che questo mestiere era qualcosa di necessario per me, qualcosa che mi faceva sentire vivo.

 

La Commedia dell’Arte è centrale nel tuo percorso: cosa rappresenta per te?

È uno strumento di svelamento. La maschera, che per molti è qualcosa che nasconde, per me è ciò che rivela. È proprio dietro la maschera che riesco a essere più autentico. Mi ha permesso di scoprire lati nuovi di me stesso, di giocare con la serietà, di sperimentare con libertà, di prendermi in giro, di respirare con il personaggio. Ho studiato molto su questo tema sia dal punto di vista attoriale che artigianale; ho imparato anche a costruire le maschere. Una delle cose più forti che ho sperimentato è stata proprio questa: la prima volta che ho indossato una maschera fatta da me, ho sentito un’esplosione di energia. La maschera è come uno specchio: ti rimanda una versione di te stesso che non conoscevi. E lavorare con i bambini o con persone fragili, usando questo strumento, mi ha fatto capire quanto il teatro possa essere uno strumento di trasformazione reale. La Commedia dell’Arte, per quanto comica e grottesca, contiene dentro di sé una verità antichissima, che parla a tutti.

Quale personaggio che hai interpretato in questi anni ti ha “preso di più”?

Il “Capitano di ventura” ad Udine. È uno dei ruoli che più mi ha segnato: inizialmente lo affrontavo con troppa intensità, ma il mio insegnante mi ha aiutato a lasciarmi andare, a cercare il lato comico. Ed è stato liberatorio.

 

E quale invece ti ha messo più alla prova e perchè?

Il protagonista del Gabbiano di Čechov, nel mio primo spettacolo post-accademia a Roma, un’occasione importante. Ricordo che, quando lessi il copione e capii chi avrei dovuto interpretare, la prima reazione fu di rifiuto. Quel personaggio mi irritava, lo trovavo esagerato, troppo distante da me. Iniziai le prove con un atteggiamento critico, come se stessi cercando di correggerlo più che interpretarlo. Il regista se ne accorse subito e mi fece capire che il problema non era “lui”, ma io: “Non puoi interpretare bene qualcuno se lo giudichi”, mi disse. È stata una grande lezione di umiltà e apertura. Aveva ragione. Un attore non può permettersi di giudicare un personaggio: deve comprenderlo, anche nei suoi lati più oscuri o ridicoli. Non sei lì per essere approvato, ma per raccontare e per metterti al servizio di una verità, anche se non ti piace.

 

Cos’è per te, oggi, essere un attore?

È conservare lo sguardo di un bambino. Lo stupore, la capacità di credere, di lasciarsi sorprendere. I bambini sono il mio metro di misura: se credono a ciò che vedono, allora sto facendo bene. Il teatro è gioco, ma un gioco molto serio, con regole, emozioni vere e il potere di smuovere qualcosa dentro. L’ho visto anche nei laboratori con persone con fragilità mentali: la maschera nel loro caso ha liberato racconti che nessun colloquio era riuscito a far emergere.

 

E oggi sei anche direttore artistico di un nuovo festival. Ce ne parli?

Sì, sono molto felice di annunciare la prima edizione del Festival “All’ombra delle sculture” che si terrà a Brufa dal 13 al 19 luglio 2025, in collaborazione con la Pro Loco di Brufa e sostenuto dalla Fondazione Perugia. Ci saranno tre spettacoli – uno su Aldo Capitini, un musical tratto da I Miserabili e un concerto sui Carmina Burana – oltre a visite guidate e iniziative inclusive come l’audiodescrizione per ipovedenti. In più, stiamo progettando per il futuro un simposio di scultura per giovani artisti; quest’anno realizzeremo una targa collettiva scolpita con il contributo simbolico di tutti i partecipanti e coordinata dall’artista Francesco Tufo.

 

Sembra un progetto ricco di significati.

Lo è. È un modo per unire arte, comunità, partecipazione e memoria. Un po’ come il teatro: si costruisce insieme e rimane dentro al cuore, se fatto con verità. Vi aspetto tutti al Festival “All’ombra delle sculture”!

Intervista di Sara Stangoni